Descrizione
Scriveva Diderot – il destinatario di questo trattatello, che si può considerare come un’apologia di Seneca e come una satira dei falsi epicurei, è Gallione, fratello del filosofo. «O Gallione, fratello mio, tutti gli uomini vogliono essere felici; ma tutti sono ciechi, quando si tratta di esaminare in che cosa consiste la felicità». Il nostro filosofo aveva individuato il vero fondamento della morale. Propriamente parlando, c’è un solo dovere: essere felici; e c’è una sola virtù: la giustizia.
«Apologia di Seneca e satira contro i falsi epicurei» definisce Diderot il De vita beata, nel classico studio premesso a questa edizione, e si mostra attratto da questa duplicità. Da un lato Seneca argomenta i temi del vero stoicismo: «non dar peso alla fortuna, né quando s’avvicina né quando s’allontana», «non aver desideri né timori», «felice è chi vive contento del proprio stato», «la virtù proceda per prima e porti le insegne; avremo ugualmente il piacere, ma ne saremo padroni e regolatori». Nella seconda parte scaglia la sua eloquenza contro i detrattori che giudicavano vana, interessata, complice la sua prossimità col potere tiranno: «non chiedermi di essere al livello dei migliori, ma soltanto di essere migliore dei malvagi». Un’ambiguità emblematica, secondo Diderot, che vi vedeva riflesso il dramma di domande e mancate risposte: che mezzi ha la cultura, la filosofia, per influire sulla felicità degli uomini: e può esistere una cultura indifferente di fronte alla felicità? Come può l’uomo probo, il saggio, impegnarsi per il bene comune? Ed è ancora in queste domande e mancate risposte che può vivere la forza della travagliata riflessione morale di Seneca, quando comincia a sembrare invecchiata la separazione tra etica e politica, e si torna a guardare all’etica – come àncora, o come zavorra – nei discorsi sul bene comune.